La Responsabilità Penale del Medico

Quando il medico è penalmente responsabile? Come opera il consenso informato in ambito penale? Come si ripartisce la colpa medica in caso di intervento in equipe? Quando si ravvisa il nesso di causalità nella condotta del medico?

La Relazione n. 157 della Corte Suprema di Cassazione definisce e approfondisce tali profili. Vediamoli.

 

1.    L’elemento oggettivo del reato. Il consenso informato.

“… L’errore del chirurgo, a livello teorico, può integrare gli estremi   di varie fattispecie criminose: le lesioni colpose, l’omicidio colposo, la violenza privata.

Elemento oggettivo di questi, come di tutti i reati, è una condotta imputabile, un evento (ove previsto dalla legge), ed il nesso causale tra condotta ed evento.

La condotta medica, come già visto trattando della responsabilità civile del sanitario, è lecita solo in presenza di un consenso libero ed informato del paziente: e tale principio non soffre deroga allorché viene in rilievo la responsabilità penale del chirurgo. Anche   in questo caso il consenso espresso dal paziente a seguito di una informazione completa sugli effetti e le possibili controindicazioni di un intervento chirurgico, è vero e proprio presupposto di liceità dell’attività del medico che somministra il trattamento, al quale non è attribuibile un generale diritto di curare  a  prescindere  dalla volontà dell’ammalato (Cass. 11335/2008).

Nondimeno, sebbene nessuno dubiti dell’imprescindibilità del consenso del paziente per trasformare un atto illecito (la violazione dell’integrità psico-fisica) in un atto lecito, esso in ambito penale viene inquadrato in due modi diversi: da taluni l’esistenza del consenso è considerata alla stregua di una causa di giustificazione, ricondotta alla previsione dell’art. 50 c.p. a presidio del diritto all’integrità fisica; secondo altri, invece, il consenso costituisce una causa di esclusione della tipicità dell’illecito penale, a tutela del diritto alla libertà morale della persona.

Ed infatti, il consenso del paziente ad un trattamento medico - che non si identifica con quello di cui all’art. 50 codice penale, ma che costituisce un presupposto per la validità e liceità dell’attività medica - perde di efficacia, ancorché consapevolmente prestato in ordine alle conseguenze lesive all’integrità personale, se queste si risolvano in una menomazione permanente che incide negativamente sul valore sociale della persona umana (Cass. 11640/2006).

Da tali premesse consegue che, in assenza di consenso informato, l’espletamento dell’attività medico-chirurgica costituisce atto illecito, per cui il medico deve rispondere di tutte le  conseguenze negative arrecate al paziente.

Qualora, poi, ricorra una situazione di emergenza tale per cui l’ammalato non sia in grado di esprimere il consenso, il medico può agire con una cura adeguata (indipendentemente dalla volontà di  eventuali parenti), giustificata dalle circostanze contingenti, trovando in questo caso applicazione l’esimente dello stato di necessità prevista dall’art. 54 codice penale

Il consenso del paziente che, se espresso validamente e nei limiti di cui all’art. 5 cod. civ., preclude la possibilità di configurare il delitto di lesioni volontarie, assumendo efficacia scriminante, non è necessario, perché l’intervento medico-chirurgico sia penalmente lecito, in presenza di ragioni di urgenza terapeutica o nelle ipotesi previste dalla legge (Cass. 34521/2010).

Il medico è sempre legittimato ad effettuare il trattamento terapeutico giudicato necessario per la salvaguardia della salute del paziente affidato alle sue cure, anche in mancanza di esplicito consenso, dovendosi invece ritenere insuperabile l’espresso, libero e consapevole rifiuto eventualmente manifestato dal medesimo paziente, ancorché l’omissione dell’intervento possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell’infermo e,   persino, la sua morte (Cass. 26446/2002).

Si è, perciò, ritenuto configurabile il reato di lesione personale dolosa in relazione alla condotta del medico che abbia sottoposto,  con esito infausto, il paziente ad un trattamento chirurgico, al quale costui abbia espresso il proprio dissenso (Cass. 21799 /2010).

Tuttavia è prevalente l’orientamento che esclude che il trattamento medico arbitrario possa essere ricondotto alla fattispecie di lesioni personali con specifico riferimento all’elemento soggettivo. Secondo questo orientamento, infatti, l’atteggiamento psicologico del medico e, in particolare, la finalità curativa dell’attività chirurgica, non può integrare il delitto di omicidio preterintenzionale o conciliarsi con il dolo di lesioni, salvo casi estremi, in cui una menomazione venga inferta senza necessità effettiva, ad esempio per scopi esclusivamente scientifici.

Il delitto di omicidio preterintenzionale si configura solo nel caso  in cui il medico sottoponga il paziente ad un intervento (dal quale consegua la morte) in assenza di finalità terapeutiche, ovvero per fini estranei alla tutela della salute, ad esempio provocando coscientemente un’inutile mutilazione, od agendo per scopi estranei (scientifici, dimostrativi, didattici, esibizionistici o di natura estetica), non accettati dal paziente; al contrario, non ne risponde, nonostante l’esito infausto, il medico che sottoponga il paziente ad  un trattamento non consentito ed in violazione delle regole dell’arte medica, quando nella sua condotta sia rinvenibile una finalità terapeutica, o comunque la terapia sia inquadrabile nella categoria degli atti medici, poiché in tali casi la condotta non è diretta a ledere, e l’agente, se cagiona la morte del paziente, risponderà di omicidio colposo ove l’evento sia riconducibile alla violazione di una regola cautelare (Cass. 3452/2010).

Ma se l’intervento chirurgico, pur eseguito senza consenso, si conclude con esito fausto, si è esclusa la configurabilità del reato di violenza privata o di lesioni personali dolose (Cass. Sezioni Unite  2437/2008).

2.    L’elemento soggettivo.

La maggioranza dei casi di responsabilità professionale in ambito sanitario (difetto di manualità, errore ed antidoverosità dell’intervento), per la mancata tipizzazione dell’atto medico e per  la carenza di espresse norme cautelari, è fondata sulla “colpa generica” e, quindi, sulla violazione dei doveri non  scritti  di diligenza, prudenza e perizia. L’accertamento di tale colpa va effettuato in base non alle norme civilistiche sull’inadempimento nell’esecuzione del rapporto contrattuale (come l’art. 2336 cod. civ.) ma a quelle penali, in quanto la condotta colposa, implicante giudizio di responsabilità penale, incide su beni primari, quali la vita  o la salute delle persone, e non già  su  aspetti  patrimoniali- economici (Cass. 1693/1997).

L’inesistenza per la stessa patologia di un unico e tassativo protocollo di cure assicura la libertà di scelta tecnica del trattamento sanitario (anche per il progresso della scienza e dell’evoluzione migliorativa dei percorsi terapeutici), ma può moltiplicare  contemporaneamente i rischi di possibili errori di apprezzamento. La scelta degli interventi terapeutici, purché tecnicamente validi, è rimessa alla discrezionalità del medico, cosicché la colpa di  quest’ultimo, nell’ipotesi d’alternativa terapeutica, non può essere valutata con riguardo alla necessità della  certezza  del  risultato, bensì in relazione all’osservanza delle regole di  condotta  proprie della professione che sono finalizzate alla prevenzione del rischio collegato all’opzione terapeutica eletta (Cass. 33384/2008).

Tuttavia, il margine di discrezionalità del medico in ordine alla diagnosi e alla terapia si riduce, fino ad annullarsi, allorquando le manifestazioni della malattia siano così vistose e univoche, che il non rilevarle appaia incompatibile con il minimo di preparazione ed esperienza richiesto dalla specializzazione conseguita (Cass. 1102/1998). Pertanto la scelta compiuta dal sanitario il quale, tra due possibili modalità d’esecuzione di un intervento chirurgico, abbia preferito quella ritenuta più agevole ancorché maggiormente  rischiosa, integra gli estremi della condotta imprudente e dunque comporta la  sua responsabilità per le lesioni conseguite al paziente (Cass. 45126/2008).

Sul piano della prova della colpa, la giurisprudenza penale ritiene che tale prova sussista di per sé sia quando si accerti che il rispetto  dei protocolli terapeutici avrebbe certamente impedito l’evento lesivo; sia quando non vengono applicate le cognizioni generali e      fondamentali attinenti alla professione medica, come un minimo di abilità manuale o di perizia tecnica  anche  nell’esecuzione  di manovre ed interventi chirurgici o nell’utilizzo di strumenti tecnici   o, infine, nella mancanza di prudenza o diligenza che non devono  mai difettare in chi esercita la professione  sanitaria  (Cass. 1444/1990).

Oltre alla perfetta esecuzione dell’intervento chirurgico, alla neutralizzazione di possibili complicanze, alla corretta diagnosi  (Cass. 40789/2008, dep. 31/10/2008, Rv. 241365), alla rimozione dei ferri chirurgici o dei corpi estranei dall’addome del paziente (Cass. 39062/2004) e alla vigilanza sull’operato dei collaboratori (Cass. 790/1988), rientrano nell’ambito del titolo di imputazione soggettiva la preparazione del composto medicinale da somministrare al paziente, anche nel caso in cui ne venga delegata l’esecuzione materiale a persona competente, (Cass. 24360/2008), nonché l’assunzione dal paziente o da altre fonti affidabili di tutte le informazioni necessarie al fine di garantire la correttezza del trattamento sanitario (Cass. 19527/2008).

 

2.2.    Colpa penale ed attività d’équipe.

L’attività medico-chirugica coinvolge generalmente la partecipazione di più professionisti, che sono portatori di convergenti esperienze multidisciplinari e specializzazioni convergenti, i quali compiono ciascuno una prestazione che  si combina funzionalmente con quella degli altri per il raggiungimento di un risultato comune.

Il concetto di “attività medico-chirurgica in equipe” viene normalmente inteso in un’accezione particolarmente ampia, comprensiva non solo di un gruppo di sanitari che opera nel medesimo contesto spazio-temporale, ma, più in generale, di ogni ipotesi in cui all’attività curativa prenda parte una pluralità di soggetti, sia pure in tempi diversi. In questo caso ogni sanitario è tenuto al rispetto non solo delle regole di diligenza proprie della specifica mansione svolta, ma anche di quegli obblighi che derivano  ad ognuno dal convergere delle attività verso un fine comune ed unitario. Ogni componente dell’equipe deve perciò cooperare per la perfetta riuscita dell’intervento, sia che eserciti una funzione in posizione gerarchicamente sovraordinata o sottordinata, sia che svolga la propria attività in un diverso ambito di specializzazione. (Cass. 18548/2005; Cass. 33619/2006).

Ciascuno dei soggetti che si dividono il lavoro risponde dell’evento illecito, non solo per non aver osservato le regole di diligenza, prudenza e perizia connesse alle specifiche ed effettive mansioni svolte, ma altresì per non essersi fatto carico dei rischi connessi agli errori riconoscibili commessi nelle fasi antecedenti o contestuali al suo specifico intervento (Cass. 41317/2007).

L’evidenza dell’errore va intesa non in senso quantitativo, come grossolanità dello scostamento della condotta del collega dalle  regole dell’arte che disciplinano la corretta esecuzione della prestazione dovuta, ma in senso qualitativo, come concreta percezione o percepibilità da parte di un professionista che è pur sempre astretto, in via primaria, dall’obbligo della diligente esecuzione delle mansioni di sua competenza.

Né può invocare il principio di affidamento  l’agente  che  non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui  condotta colposa, poiché allorquando il garante precedente abbia  posto in essere una condotta colposa che abbia avuto  efficacia causale nella determinazione dell’evento, unitamente alla condotta colposa del garante successivo, persiste la responsabilità anche del primo in base al principio di equivalenza delle cause, a meno che possa affermarsi l’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che deve avere carattere di eccezionalità ed imprevedibilità, ciò che si verifica solo allorquando la condotta sopravvenuta abbia fatto venire meno la situazione di pericolo originariamente provocata o l’abbia   in tal modo modificata da escludere la riconducibilità al precedente garante della scelta operata (Cass. 46824/2011).

Tuttavia i medici che si trovano in posizione subordinata  possono legittimamente confidare nella circostanza per cui il “superiore gerarchico” non solo adempia correttamente ai propri obblighi di diligenza, ma impartisca direttive corrette: la responsabilità del sottoposto può dunque residuare solo se le circostanze del caso rendano “agevolmente” riconoscibile l’errore o quando l’errore del superiore sia “evidente e non settoriale”. Infatti la responsabilità penale di ciascun componente di una “equipe” medica per il decesso del paziente sottoposto ad intervento  chirurgico non può essere affermata sulla base dell’accertamento di un errore diagnostico genericamente riferibile alla “equipe” nel suo complesso, ma va legata alla valutazione delle concrete mansioni di ciascun componente, nella prospettiva di verifica, in concreto, dei limiti oltre che del suo operato, anche di quello degli altri (Cass. 19755/2009).

La giurisprudenza si è mostrata particolarmente rigida nel caso di abbandono di corpi estranei nell’addome del paziente: tutti i soggetti intervenuti all’atto operatorio devono partecipare ai controlli volti a fronteggiare il ricorrente e grave rischio di lasciare   nel corpo del paziente oggetti estranei; ne consegue che non è consentita la delega delle proprie incombenze agli altri componenti, poiché ciò vulnererebbe il carattere plurale, integrato, del controllo, che ne accresce l’affidabilità (Cass. 15282/2008).

Il principio generale, dunque, resta quello di un legittimo affidamento nel diligente adempimento altrui, salvo che l’errore commesso sia “riconoscibile” da un agente modello corrispondente al “medico in generale” e non al “medico specialista” e che la violazione della regola cautelare sia riferibile all’agente concreto.

Il principio dell’affidamento, così temperato, si armonizza con il modello organizzativo della divisione dei compiti e media in modo equilibrato da un lato l’esigenza di assicurare la distribuzione del lavoro, e quindi di sostanziare il dovere di diligenza dei sanitari attraverso obblighi di condotta e di informazione che garantiscano una effettiva protezione della vita e dell’integrità psico-fisica del paziente, e dall’altro la necessità di circoscrivere i contenuti dell’obbligo entro limiti compatibili con il principio della personalità della responsabilità penale. Di conseguenza il chirurgo capo equipe, fatta salva l’autonomia professionale dei singoli operatori, ha  il dovere di portare a conoscenza di questi ultimi tutto  ciò  che  è venuto a sapere sulle patologie del paziente e che, se comunicato, potrebbe incidere sull’orientamento degli altri (Cass. 3456/1992).

Pertanto il principio di affidamento non opera quando colui che si affida sia in colpa per aver violato norme precauzionali o per aver omesso determinate condotte  confidando  che  altri,  succedendo nella posizione di garanzia, elimini la violazione o ponga rimedio  all’omissione (Cass. 18568/2005, dep.).

Allorché il professionista abbia svolto ed esaurito le prestazioni attinenti al compito assegnatogli, l’intervento abbia seguito il suo normale decorso e residui il solo compimento  di  adempimenti semplici e routinari, il suo allontanamento può essere giustificato  solo da particolari esigenze, da un lato perché è più intenso e ragionevole l’affidamento nell’esecuzione diligente da parte dei colleghi delle attività rimanenti, dall’altro per il fatto che la condizione generale del paziente non presenta caratteri tali da rendere plausibile l’attivazione dei propri poteri impeditivi e di controllo in relazione all’ulteriore e prevedibile corso del trattamento.

In tal senso è stato sancito che la circostanza dello “scioglimento dell’equipe operatoria”, che abbia a verificarsi quando ancora l’intervento deve essere completato da adempimenti di particolare semplicità, esclude l’elemento della colpa per negligenza in capo al medico che ha abbandonato anticipatamente l’equipe, sempre che  non si tratti di intervento operatorio ad alto rischio e l’allontanamento sia giustificato da pressanti ed urgenti necessità  professionali (Cass. 22579/2005).

3.    Il nesso di causalità.

Allo straordinario progresso della scienza e della conoscenza medica paradossalmente sembra accompagnarsi la crescita dell’incertezza causale per il raggiungimento di conoscenze che fanno lievitare il numero delle leggi scientifiche in grado di spiegare la causalità dei fenomeni biologici e patologici dell’essere umano.

Anche in materia penale, pertanto, l’accertamento del nesso causale costituisce il punto d’arrivo di un lungo percorso intrapreso dalla giurisprudenza di legittimità alla ricerca di una equilibrata soluzione al dibattuto problema nell’ambito della responsabilità medica.

La problematicità del nesso causale deriva dall’intrinseca natura della medicina, che è un settore notoriamente governato da leggi scientifiche di natura statistica o probabilistica, nel quale devono armonicamente conciliarsi il carattere relativo delle spiegazioni causali con le esigenze di  certezza  che  devono  sorreggere  il giudizio di responsabilità penale.

Il nesso di causalità può essere, dunque, ravvisato quando si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato in epoca significativamente posteriore o con intensità meno lesiva (Cass. 14435/1990), poiché accelerare il momento della morte di una persona destinata a soccombere equivale a cagionarla (Cass. 3185/1990).

Se si ripercorre brevemente l’evoluzione giurisprudenziale sul tema, si coglie con immediatezza un percorso che tende alla progressiva svalutazione del grado percentuale delle probabilità di esito positivo sufficiente per l’accertamento del nesso eziologico fra  la colpevole condotta da parte del medico e la morte del paziente.

Alcune pronunce nella ricerca del nesso di causalità  tra  la condotta dell’imputato e l’evento, al criterio della certezza delle conseguenze della condotta, avevano sostituito quello della probabilità (anche limitata) degli effetti, ritenendo necessaria la presenza del trenta (Sez. IV, 12/07/1991), del cinquanta (Cass. 12/5/1989), del settantacinque (Sez. 4, Sentenza n. 1126 del 7/12/1999, dep. 01/02/2000, Rv.  215659)  o  dell’ottanta-settanta per cento (Sez. IV, 10/7/1987) di probabilità di successo dell’intervento chirurgico.

In taluni casi è stata affermata la responsabilità del medico per l’omissione di un intervento chirurgico  necessario,  anche  quando esso non sia tale da garantire in termini di certezza la sopravvivenza del paziente, se solo vi sia una limitata, purché apprezzabile, probabilità di successo, indipendentemente da una determinazione matematica percentuale di questa (Cass. 360/1994).

Successivamente, l’incerto criterio relativo alla seria ed apprezzabile probabilità di successo dell’intervento è stato sostituito da quello dell’impedimento dell’evento lesivo con un elevato grado di probabilità di successo prossimo alla certezza, in  una percentuale di casi quasi prossima a cento (Cass. 14006/2000), non essendo sufficiente  a  tal  fine  un giudizio di mera verosimiglianza (Cass. 10437/1993).

La sussistenza del nesso di causalità non può essere affermata sulla base di una valutazione di probabilità statistica,  risultando invece necessaria la formulazione  di  un  giudizio  di  probabilità logica che consenta di ritenere l’evento specifico riconducibile alla condotta dell’agente al di là di ogni ragionevole dubbio (Cass. 39594/2007).

Questa impostazione si colloca nell’ambito del più recente orientamento per il quale l’accertamento di un elevato coefficiente di probabilità, riferibile a percentuali di certezza, costituisce un’interpretazione più aderente ai principi costituzionali in materia penale.

Nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può  ritenersi  sussistente  sulla  base  del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità  lesiva (Cass. Sezioni Unite 30328/2002).

È  stata   definitivamente   accolta   la   teoria   condizionalistica, codificata nell’art. 41 cod. pen., secondo la quale “la verifica della causalità postula il ricorso al giudizio controfattuale nel senso che la condotta umana è condizione necessaria dell’evento se, eliminata mentalmente dal novero dei fatti realmente accaduti, l’evento non si sarebbe verificato”.

Il meccanismo controfattuale, necessario per stabilire l’effettivo rilievo condizionante della condotta umana deve essere fondato su affidabili informazioni scientifiche nonché sulle contingenze significative del caso concreto, dovendo essere considerati: a) il consueto andamento della patologia in concreto accertata; b) la normale efficacia delle terapie; c) i fattori che in genere influenzano   il successo degli sforzi terapeutici (Cass. 32121/2010).

L’esigenza di rispettare il fondamentale principio di tassatività   nel  diritto penale ha comportato la scelta di integrare tale metodo  con l’utilizzo di un criterio idoneo a guidare l’interprete nell’operazione di esclusione degli antecedenti dell’evento.

Tale criterio è identificato nel modello generale di sussunzione  del singolo fatto sotto leggi scientifiche di copertura (distinte in universali e statistiche) oppure sotto massime di esperienza.

Le leggi universali sono quelle che riconoscono nella successione di determinati accadimenti invariabili regolarità senza eccezioni, mentre le leggi statistiche si limitano ad affermare che un evento è  accompagnato dal verificarsi di un altro evento in una certa percentuale di casi e con una frequenza relativa.

Si ha quindi la conferma della struttura ipotetica della spiegazione causale, fondata su un metodo eziologico a base probabilistica, tanto più valido quanto più vicino alla certezza: l’eventuale dubbio residuo non sarebbe ragionevole.

Il giurista dovrebbe tenere conto dell’efficacia terapeutica  dell’intervento omesso, non limitandosi ad utilizzare acriticamente le leggi di copertura scientifica, ma verificando la loro adattabilità al caso concreto, previa considerazione di tutti gli elementi ed i fattori interagenti e caratterizzanti la fattispecie.

Tuttavia, se si pretendesse una spiegazione causale di tipo deterministico, secondo criteri di certezza assoluta, si finirebbe col  frustrare gli scopi general-preventivi e repressivi del diritto penale  in settori nevralgici per la tutela di beni primari.

Al contempo le difficoltà di prova in materie caratterizzate da attività complesse, implicanti un elevato livello di organizzazione  e di distribuzione delle competenze, non possono, comunque, legittimare l’adozione di una nozione debole di causalità accertata attraverso coefficienti di probabilità indeterminati e arbitrari.

Si ritiene perciò necessario un giudizio di responsabilità fondato su un accertamento della sussistenza del nesso causale con alto grado di probabilità logica o credibilità razionale, rispetto  all’evidenza disponibile e alle circostanze del caso concreto (Cass. 19777/2004), sicché devono escludersi processi causali alternativi e deve affermarsi in termini di “certezza processuale”, ossia di alta credibilità razionale o probabilità logica, che sia stata proprio quella condotta a determinare l’evento lesivo.

Per la prova del nesso di causalità si deve fare riferimento al ragionamento inferenziale evocato in tema di  prova  indiziaria dall’art. 192, comma secondo, cod. proc. pen., oltre che alla regola generale in tema di valutazione della prova di cui al primo comma dello stesso articolo ed alla ulteriore regola della ponderazione delle ipotesi antagoniste, prevista dall’art. 546, comma primo, lett. e),    codice procedura penale (Cass. 17523/2008)

La novità dell’elaborazione consiste nel riferire il giudizio di probabilità alle circostanze del caso concreto, rifiutando la possibilità di stabilire un coefficiente di percentuale probabilistica assoluto o predeterminato, valutando con maggior cautela le  rilevazioni statistiche.

Il ragionevole dubbio sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico, rispetto ad altri fattori interagenti  nella produzione dell’evento lesivo, comporta l’esito assolutorio del giudizio.

In presenza di una condotta colposa posta in essere da un determinato soggetto, non può ritenersi interruttiva del nesso di causalità (art. 41 cod. pen.) una successiva condotta parimenti colposa posta in essere da altro soggetto, quando essa non abbia le caratteristiche dell’assoluta imprevedibilità e inopinabilità.

Questa condizione non può configurarsi quando la condotta sia consistita nell’inosservanza, da parte di un soggetto successivamente intervenuto, di regole dell’arte medica già disattese da quello che lo aveva preceduto (Cass. 6215/2009)”.

 

Articolo Tratto dalla Relazione n. 157 del 4.09.2012 della Corte Suprema di Cassazione - Ufficio del Massimario e del Ruolo

“LA RESPONSABILITÀ CIVILE E PENALE DEL CHIRURGO
NELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ”

a cura dei Redattori dott. Luigi Cuomo e dott. Marco Rossetti

 

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