La Prova del Danno

Il paziente ha l’onere di provare il danno subito?

La Relazione n. 157 della Corte Suprema di Cassazione definisce e approfondisce tale profilo. Vediamolo.

 

Nesso di causalità ed onere della prova.

Una terza peculiarità dell’accertamento del nesso di causa tra la condotta del chirurgo e il danno lamentato dal paziente riguarda  l’onere della prova.

In linea generale, infatti, l’onere della prova del nesso causale tra condotta del medico e danno spetta alla vittima (Cass. 11.5.2009 n. 10743). La Cassazione ha tuttavia ammesso la possibilità di  pronunciare un giudizio di condanna nei confronti del medico in base ad un nesso di causalità - per così dire - “presunto”: più esattamente, per questo orientamento, quando non è possibile stabilire se la morte di un paziente sia stata causata dall’incuria del  medico curante o da altre cause, e l’incertezza derivi dalla incompletezza della cartella clinica o dall’omesso compimento di altri adempimenti ricadenti sul medico, quest’ultimo deve ritenersi responsabile del decesso, allorché la sua condotta sia stata astrattamente idonea a causarlo (Cass. 13.9.2000 n. 12103, in Dir. e giust., 2000, fasc. 34, 33; Cass. 21.7.2003 n. 11316; Cass. 27.4.2010 n. 10060; cfr. altresì, sull’obbligo di tenuta della cartella clinica, Cass. 18.9.2009 n. 20101).

Questo principio è stato affermato persino in un caso in cui la probabilità che il danno fosse stato causato dalla  condotta  del medico appariva addirittura minore rispetto ad altre possibili cause, in base al rilievo che “il difetto di accertamento del fatto astrattamente idoneo ad escludere il nesso causale tra condotta ed evento non può essere invocato, benché sotto il profilo statistico quel fatto sia “più probabile che non”, da chi quell’accertamento avrebbe potuto compiere e non l’abbia, invece, effettuato” (Cass. 17.2.2011 n. 3847).

Pertanto, quando applica il principio della causalità adeguata alla materia della responsabilità del medico, la corte sembra aggiungervi un ulteriore corollario in materia di riparto dell’onere della prova, che può essere così riassunto:

  • se è accertato che il medico ha posto in essere un antecedente causale astrattamente idoneo a produrre il danno;
  • se non è accertato se, nella specie, il danno sia stato effettivamente causato dalla condotta del medico;
  • in simili evenienze, incombe sul medico l’onere di provare concretamente, se vuole andare esente da responsabilità, che il danno è dipeso da un fattore eccezionale

Il concorso di cause umane e naturali.

L’accertamento del nesso di causalità, specie tra la condotta del medico ed il danno alla salute del paziente, ha fatto registrare decisioni discordi in seno alla Cassazione nell’ipotesi in cui alla produzione del danno abbia concorso sia il fatto umano (la condotta del medico), sia cause naturali, quali la predisposizione del paziente o patologie pregresse di cui era portatore.

Per la comprensione di tale problema occorre ricordare come,  per lunghi anni, la Corte di Cassazione aveva costantemente   affermato che se alla produzione dell’evento di danno concorrono la condotta dell’uomo e cause naturali, il  responsabile  non  può invocare alcuna riduzione della  propria  responsabilità,  in  quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile (così,  ex plurimis, Cass. civ., sez. II, 28 marzo 2007, n. 7577; Cass. civ., sez. lav., 9 aprile 2003, n. 5539).

Poi, nel 2009, la Corte di legittimità aveva mutato avviso proprio nel decidere un caso di colpa medica, con la sentenza pronunciata da Cass. civ., sez. III, 16 gennaio 2009, n. 975.

Il caso oggetto di quest’ultima decisione riguardava la vicenda di un paziente, già infartuato, al quale i chirurghi nel corso di un intervento procuravano un’emorragia in conseguenza della lesione accidentale di un vaso sanguigno. Dopo l’emorragia il paziente pativa un secondo infarto che lo conduceva a morte: sicché era sorto il problema di stabilire se la morte fosse stata causata dall’emorragia, ovvero se il secondo infarto fosse sopravvenuto per un fattore autonomo, quale naturale sviluppo dello stato di salute in cui il paziente si trovava al momento del ricovero.

La Corte nel decidere questa vicenda, dopo avere ribadito il tradizionale principio secondo cui il nesso di  causalità  tra  la condotta e l’illecito sussiste, ai sensi dell’art. 40 c.p., a condizione che senza la prima il secondo non si sarebbe mai potuto verificare, ha sentito il bisogno di aggiungereche in ogni caso il giudice di merito, cui sarebbe stata rinviata la causa, nella liquidazione del danno avrebbe dovuto tenere conto delle gravi condizioni di salute del paziente, preesistenti all’intervento.

In particolare, ove avesse accertato che la morte del paziente fu determinata da un concorso di causa (la condotta  imperita  dei sanitari e le pregresse condizioni di salute), secondo  la  Suprema Corte  il giudice di merito avrebbe dovuto “procedere alla specifica identificazione della parte di danno rapportabile all’uno o all’altra, eventualmente con criterio equitativo”. Anche nel caso di incertezza sulle cause dell’illecito dovrebbe infatti trovare applicazione l’art. 1226 c.c., per evitare di addossare tutto il risarcimento del danno al responsabile di una sola porzione di esso.

Questa conclusione venne corroborata poi da due rilievi: sia l’art. 2055 c.c., in tema di regresso fra condebitori solidali; sia l’art. 1227 c.c., in tema di concorso colposo della vittima nella produzione del   danno, prevedono che la misura del regresso e - rispettivamente - la riduzione del risarcimento siano determinate in funzione delle conseguenze derivate dalla condotta del condebitore o della vittima, in tal modo ammettendo che il nesso di causalità possa essere concettualmente frazionato.

L’effetto di questa sentenza, di fatto, fu quello di circoscrivere l’area della responsabilità medica. Infatti, quando il paziente avesse invocato la responsabilità del sanitario che l’aveva avuto in cura, ma fosse emerso che comunque alla produzione del danno alla persona del paziente aveva concorso non solo l’opera del medico, ma anche   le pregresse condizioni di salute del paziente stesso, si consentiva al giudice di ridurre in via equitativa - ai sensi dell’art. 1226 c.c. - l’ammontare del risarcimento.

Il principio affermato dalla sentenza 975/09 è stato però successivamente abbandonato dalla sentenza 21 luglio 2011 n. 15991 della Corte di Cassazione.

La sentenza più recente ha rilevato come la soluzione adottata nel 2009 (e cioè la graduabilità della responsabilità del medico in funzione delle pregresse condizioni del paziente) confondeva due diversi nessi di causalità: quello tra la condotta illecita e la concreta  lesione dell’interesse (c.d. causalità materiale, disciplinata dall’art. 40 c.p.), e quello tra quest’ultima ed i danni che ne sono derivati (c.d. causalità giuridica, disciplinata dall’art. 1223 c.c.

La circostanza che un paziente, prima dell’intervento rivelatosi infausto, fosse portatore di patologie pregresse non può mai comportare - ha stabilito la Cassazione  (n.15991/2011) - il “frazionamento” del nesso di causalità tra condotta e danno. Tale nesso o c’è o manca, senza che sia possibile alcuna graduazione percentuale. Pertanto, quand’anche il medico abbia con la propria azione od omissione fornito un contributo causale solo dell’1% alla produzione del danno, il quale è dovuto per il resto al concorso di cause naturali, egli dovrà comunque risponderne per intero.

Le pregresse condizioni di salute del paziente, e più in generale  il concorso di concause naturali alla produzione del danno, vengono invece in rilievo nel momento della liquidazione del danno: più esattamente, nella selezione, tra tutte le conseguenze provocate  dall’errore medico, delle sole che siano giuridicamente risarcibili,  quali conseguenze immediate e dirette dell’illecito ai sensi dell’art. 1223 c.c.

Sotto questo profilo, la sentenza 15991/2011 si spinge a suggerire una autentica tassonomia dei casi più frequentemente ricorrenti:

  • se il paziente era già malato od invalido, e l’atto medico aggrava le sue condizioni di salute, il danno va liquidato considerando quale sarebbe stata la condizione del paziente se non ci fosse stato l’errore medico;
  • se il paziente era già “affetto da patologie prive di effetti invalidanti”, e l’atto medico gli causa un danno alla salute, il danno va liquidato senza tenere conto dello stato pregresso del paziente;
  • se il paziente era affetto da una patologia non letale, e l’errore del medico ne causa la morte, lo stato di salute pregresso:

(c’) è irrilevante ai fini della liquidazione del danno patito iure proprio dai familiari della vittima;

(c’’) può giustificare la riduzione del risarcimento dell’eventuale danno alla salute patito dalla vittima primaria e trasmesso iure successionis agli eredi;

  • se il paziente era già affetto da una malattia letale, ma l’errore del medico ne accelera la morte, le sue pregresse condizioni di salute possono giustificare una riduzione del risarcimento spettante iure proprio ai familiari, in proporzione dello scarto temporale tra la durata della vita effettivamente vissuta e quella che la vittima, in assenza dell’errore medico, avrebbe verosimilmente potuto sperare…”.

 

Articolo Tratto dalla Relazione n. 157 del 4.09.2012 della Corte Suprema di Cassazione - Ufficio del Massimario e del Ruolo

“LA RESPONSABILITÀ CIVILE E PENALE DEL CHIRURGO
NELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ” a cura dei Redattori dott. Luigi Cuomo e dott. Marco Rossetti

 

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