La Colpa del Medico

Quando il medico sbaglia?

Quali sono i criteri professionali a cui il medico e, più in generale, gli esercenti delle professioni sanitarie si devono attenere nello svolgimento delle loro mansioni?  

La Relazione n. 157 della Corte Suprema di Cassazione definisce e approfondisce tali profili. Vediamoli.

 

“….Affinché la responsabilità civile possa produrre un danno risarcibile devono necessariamente coesistere tre elementi: una condotta colposa, un danno ingiusto (cioè lesivo di un interesse giuridicamente protetto) ed un nesso di causalità tra la condotta ed il danno.

La responsabilità del medico non fa eccezione a questa regola:   è dunque opportuno esaminarla separatamente nei suoi tre elementi costitutivi.

La colpa civile consiste nel tenere una condotta diversa da quella   che, per legge o per comune prudenza, si sarebbe dovuta tenere.

Criterio di valutazione della colpa è la diligenza (art. 1176 c.c.): è in colpa chi non ha tenuto una condotta diligente, cioè una condotta che qualsiasi altra persona, investita del medesimo incarico, avrebbe tenuto nelle stesse circostanze.

Il medico tuttavia, in quanto svolgente un’attività a contenuto professionale, nell’adempimento delle proprie obbligazioni è tenuto non già alla diligenza generica del buon padre di famiglia, ma alla più accurata diligenza esigibile dall’homo eiusdem generis et condicionis, ovvero di colui che svolge la stessa professione.  Ciò vuol dire che tiene una condotta negligente il medico il quale non si comporti come qualunque medico “ideale” avrebbe fatto nelle medesime circostanze. Ma chi è il medico “medio”? Quanto dev’essere ampia la sua cultura, quanto aggiornate le sue conoscenze, quanto ramificati i suoi contatti con gli specialisti di altre discipline?

A tal riguardo da molti anni la Corte di Cassazione ripete che la diligenza esigibile dal medico deve essere  “superiore alla media”; che la diligenza che “deve impiegare il  medico nello svolgimento della professione è quella del regolato ed accorto professionista, ossia del professionista esercente la sua attività con scrupolosa attenzione ed adeguata preparazione professionale” (Cass. n. 23846/2008).

Questa speciale diligenza esigibile dal medico “comporta rispetto di tutte le regole e gli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della professione medica” (Cass. 17964/2010) ed impone   al medico non solo la corretta esecuzione della prestazione sanitaria     , ma anche la corretta esecuzione delle attività accessorie, come l’obbligo di sorveglianza sulla salute del soggetto operato anche nella fase postoperatoria (Cass. 2334/2011). La conseguenza è che versa in colpa il medico che causi un danno per “inadeguatezza od incompletezza di preparazione”, anche se lieve, poiché il bagaglio tecnico del medico “deve necessariamente comprendere la conoscenza di tutti i rimedi che non siano ignoti alla scienza ed alla pratica della medicina” (Cass. 1441/1979).

Per la Corte di cassazione, insomma, il medico “medio” di cui all’art. 1176, comma 2, c.c., non è il medico “mediocre”, ma il medico “bravo”, anzi, “molto bravo”: un medico che si aggiorna, che va ai convegni, che studia, che si preoccupa della sorte del paziente anche quando non è presente in ospedale (Cass. 1441/1979), che consiglia al paziente tutte le alternative terapeutiche possibili e ragionevoli.

Come visto, dunque, la giurisprudenza ha posizionato l’asticella della diligenza professionale minima, ex art. 1176               comma 2, c.c., molto in alto.

 

La casistica.

Ma, nello specifico, in che modo i princìpi che abbiamo visto sono stati    applicati all’attività medica?


Poiché, come detto, deve ritenersi in colpa ex art. 1176 c.c. il medico che abbia una preparazione anche solo lievemente inadeguata od incompleta, la Corte di Cassazione ha ritenuto in colpa il medico che abbia omesso di adottare un “rimedio atto a scongiurare determinate complicazioni postoperatorie”, che fosse “acquisito alla pratica medica perché insegnato senza contrasto da un autore di tecnica operatoria e non ripudiato da altri autori o dalle varie scuole alla stregua del progresso scientifico”.

Così, ad esempio, si è ritenuto in colpa il chirurgo che, dopo un intervento di artrodesi del ginocchio reso necessario da tubercolosi ossea, non aveva applicato un drenaggio  in gomma a tutti e due gli angoli della ferita, per evitare il formarsi  di raccolte ematiche negli spazi lasciati vuoti dall’intervento

Chirurgico (Cass. 1441/1979), ovvero il medico che, a fronte di una presentazione anomala del feto, che lo esponeva al rischio di  una  distocia  di spalla, abbia optato per l’applicazione della ventosa in luogo del taglio cesareo (Cass. 8875/1998).

Molto frequenti sono anche le decisioni che hanno ravvisato la negligenza di cui all’art. 1176 c.c., da parte del chirurgo, nel ritardo col quale si è eseguito un intervento da ritenersi urgente: una fattispecie tipica assai ricorrente in tal senso è quella concernente la responsabilità dell’ostetrico-ginecologo, per ritardata esecuzione del parto cesareo pur a fronte di inequivoci sintomi di sofferenza perinatale del feto (Cass. 4852/1999). Analogo è il caso della ritardata esecuzione di esami diagnostici in grado di inquadrare correttamente sintomi aspecifici: è stata, infatti, ritenuta colposa per negligenza la condotta del chirurgo che, sia pure a fronte di un caso clinico molto raro, aveva omesso di approfondire i  sintomi manifestati dal paziente. Questo principio è stato affermato    in un caso in cui un paziente, operato di ernia del disco, aveva manifestato subito dopo l’intervento una paraplegia acuta, dovuta (come si scoprì solo successivamente) ad un tumore infiltrante tra l’XI e la XII vertebra dorsale. Il chirurgo, tuttavia, aveva omesso di adottare provvedimenti decisivi, ed anzi aveva disposto il trasferimento del paziente nel reparto di neurochirurgia soltanto sette ore dopo il manifestarsi della paraplegia. Chiamata a valutare    tale fattispecie, la S.C. ha ritenuto corretta la decisione di merito, la quale aveva ravvisato nella condotta del chirurgo gli estremi della negligenza colpevole (Cass. 9085/2006, n.  9085).

Nella valutazione della diligenza del chirurgo, inoltre, non sempre costituisce una scusante la circostanza che questi sia stato chiamato ad affrontare una urgenza esulante dalle sue competenze, ovvero il cui trattamento esigeva strutture od apparati non disponibili presso quell’ospedale: anche in tali circostanze, infatti, il medico ha l’obbligo di “valutare con prudenza e scrupolo i limiti della propria adeguatezza professionale”, ricorrendo anche all’ausilio di un consulto se la situazione non è così urgente da sconsigliarlo. Egli, inoltre, deve adottare tutte le misure necessarie per ovviare alle carenze strutturali ed organizzative incidenti sugli accertamenti diagnostici e sui risultati dell’intervento, ovvero, ove   ciò non sia possibile, deve informare il paziente, consigliandogli, se  manca l’urgenza di intervenire, il ricovero in una struttura più idonea. In applicazione di questi princìpi, la S.C. ha cassato la decisione della Corte di merito che aveva escluso la responsabilità dei medici del pronto soccorso i quali avevano proceduto, eseguendola scorrettamente, alla sutura del nervo ulnare di un ragazzo ricoverato per ferita da taglio al terzo inferiore del braccio   destro con lesione muscolo - nervosa, senza interpellare il chirurgo dirigente , malgrado la loro inesperienza per tale tipo di intervento e  la mancanza di strutture di ausilio per sopperire ad essa (Cass. 12273/2004).

Merita di essere ricordato, infine, come possa incorrere in responsabilità non solo il chirurgo il quale non esegua interventi necessari o richiesti dal paziente, ma anche quello che esegua interventi che il paziente ha espressamente rifiutato, a nulla rilevando    che tale omissione esponga il paziente a pericolo di  morte.

Va tuttavia soggiunto che tale principio, sebbene affermato in teoria, finora non ha mai condotto ad alcuna condanna al risarcimento di medici che abbiano salvato la vita al paziente, in quanto il dissenso di quest’ultimo a ricevere  cure  salvavita  è ritenuto valido ed efficace soltanto quando sia attuale ed inequivoco: da ciò la conseguenza che il medico, di fronte ad un peggioramento imprevisto ed imprevedibile delle condizioni del paziente e nel concorso di circostanze impeditive della verifica effettiva della persistenza di tale dissenso, può legittimamente ritenere certo od altamente probabile che esso non sia più valido e praticare, conseguentemente, la terapia già rifiutata, ove la stessa sia indispensabile per salvare la vita del paziente. In applicazione di questo principio, la S.C. ha ritenuto esente da responsabilità un medico il quale aveva eseguito una trasfusione di sangue ad un “Testimone di Geova”, che all’atto del ricovero in ospedale aveva dichiarato di rifiutare trasfusioni di sangue, ma le cui condizioni si erano drasticamente aggravate nel corso dell’intervento chirurgico, e non vi era possibilità di interpellare altri soggetti legittimati in sua vece (Cass. 4211/2007).

La responsabilità per colpa lieve (art. 2236 c.c.).

La responsabilità del medico - come quella di qualsiasi altro professionista - è attenuata dal disposto dell’art. 2236 c.c., in virtù    del quale “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici   di speciale difficoltà”, il professionista risponde soltanto se versa in colpa grave.

Tuttavia l’elaborazione giurisprudenziale degli ultimi anni ha, per  i medici come per gli altri professionisti, in vario modo delimitato  la  portata dell’art. 2236 c.c.

Tale norma infatti è pacificamente ritenuta inapplicabile:

  • nel caso di interventi rutinari o di facile esecuzione;
  • nel caso di colpa per imprudenza o per

Che l’art. 2236 c.c. sia applicabile ai soli casi di colpa per imperizia, non a quelli di colpa per imprudenza o negligenza, è principio affermato dalla S.C. ormai da molti anni, in base al rilievo    che se la colpa è consistita in una mancanza di perizia, l’accertamento di essa da parte del giudice non può essere necessariamente “rigoroso”, in quanto il giudice deve tener conto che la patologia è sempre condizionata, nelle sue manifestazioni concrete, dalla individualità biologica del paziente; che i dati nosologici non sono tassativi e che è sempre possibile un errore di apprezzamento dei riscontri clinici, sicché il giudizio diagnostico può, con frequenza, risultare errato. Di conseguenza, se il medico è stato imperito, egli risponde soltanto se versi in colpa grave (a meno che, come si è detto, l’intervento non fosse routinario o di facile esecuzione (Cass. 11440/1997). Se, invece, la colpa è consistita in una mancanza di diligenza, l’esame deve essere particolarmente rigoroso, perché la tutela della salute, che viene affidata al medico, impone a questi l’esercizio della massima attenzione.

Deve altresì aggiungersi che, col tempo ed a causa del progresso tecnologico e delle tecniche chirurgiche, la giurisprudenza è venuta slargando l’area degli interventi ritenuti “di speciale difficoltà”, ai sensi dell’art. 2236 c.c.

Sono stati ritenuti interventi di non speciale difficoltà,  ad esempio:

- un intervento di polipectomia endoscopica (Cass. 8.10.2008 n.

24791, in Danno e resp. 2009, 414);

- la diagnosi precoce nel neonato della fenilchetonuria (Cass.

2.2.2005 n. 2042, in Ragiusan, 2005, 365);

- l’esecuzione per via naturale di parto rivelatosi distocico per la microsomia del feto ed il prolungarsi del periodo gestazionale sino alla 43° settimana (Cass. 13.1.2005 n. 583, in Giust. civ., 2006, I,

2186);

- la corretta immobilizzazione delle articolazioni di un arto ustionato (Cass. 3.3.1995 n. 2466, in Giur. it., 1996, I, 1);

- l’elettroshock (Cass. 15.12.1972 n. 3616, in Resp. civ. prev., 197

10297, in Danno e resp., 2005, 26).

Se, invece, la colpa è consistita  in una mancanza di diligenza, l’esame deve essere particolarmente rigoroso, perché la tutela della salute, che viene affidata al medico, impone a questi l’esercizio della massima attenzione.

Deve altresì aggiungersi che, col tempo ed a causa del progresso tecnologico e delle tecniche chirurgiche, la giurisprudenza è andata allargando l’area degli interventi ritenuti “di speciale difficoltà”, ai sensi dell’art. 2236 c.c.

Sono stati ritenuti interventi di non speciale difficoltà, ad esempio:

- un intervento di polipectomia endoscopica (Cass. 24791/2008)

- la diagnosi precoce nel neonato della fenilchetonuria (Cass. 2042/2005;

- l’esecuzione per via naturale di parto rivelatosi distocico per la microsomia del feto ed il prolungarsi del periodo gestazionale sino alla 43ª settimana (Cass. 583/2005);

- la corretta immobilizzazione delle articolazioni di un arto ustionato (Cass.  2466/1995);

- l’elettroshock (Cass. 3616/1979)…”.

 

Articolo Tratto dalla Relazione n. 157 del 4.09.2012 della Corte Suprema di Cassazione - Ufficio del Massimario e del Ruolo

“LA RESPONSABILITÀ CIVILE E PENALE DEL CHIRURGO
NELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ”

a cura dei Redattori dott. Luigi Cuomo e dott. Marco Rossetti

 

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